Scritti da noi

Primo classificato al contest "Malattia, se ne deve parlare?" di Repubblica@scuola, premio intervista alla cantante Emma Marrone

Per colpa di un anomalo funzionamento dell’organismo.

di Antonella Cristiano classe V A

A volte non ci si rende conto dell’importanza che ha il tempo che trascorre ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, a volte lo lasciamo trascorrere mentre rimaniamo immobili ad osservare i passi degli altri muoversi verso il vertice o verso il fondo. A volte non ci si rende conto che la vita è un dono inalienabile, a volte questa viene stroncata, strappata, spezzata da una malattia e non ritorna più indietro.

Quando incombe nella vita questo “anomalo funzionamento dell’organismo” tutto si ferma e una domanda sorge spontanea “e ora?”. Uscire di casa e sentire gli occhi pietosi della gente gravare sul quel viso pallido e consumato dal dolore e sentirsi additato come “quello malato”, oppure non rivelare le proprie condizioni e stare nella penombra di una felicità che è destinata a svanire presto, forse domani. Se ne deve parlare, che sia tramite una canzone, una lettera, un dipinto, per mezzo di qualsiasi linguaggio, non ha importanza. L’importante è non sparire senza un motivo da dare alla persone che ci amano.

La malattia di un uomo non è solo di un uomo, ma è di tutti gli altri che fanno parte della vita di quell’uomo.


Testo classificatosi al Terzo posto del Premio "Scriviamoci 2018"

“Col patire, capire”

di Benedetta Persico, V A

Enea è un profugo siriano: scappa da una disastrosa guerra nel Medio Oriente alla volta dell’Europa. Mosè è costretto a fuggire da un regime teocratico ed autocrate nell’Iran di Ali Khamenei. Francesco Petrarca è un apolide che vive della propria arte in balia dei regnanti europei. La storia delle migrazioni affonda le proprie radici nella notte dei tempi: un ottimo soggetto per la letteratura, dalla Bibbia all’Eneide, approdando alla graphic novel con “Persepolis” di Marjane Satrapi. Le proporzioni del fenomeno migratorio ci appaiano senza precedenti, eppure risiede nella natura stessa dell’uomo la tendenza al miglioramento significativo delle proprie condizioni di vita, all’inarrestabile scoperta, alla tumultuosa ricerca.

Clandestini, rifugiati, richiedenti asilo o semplici emigrati economici ricercano qualcosa. Molti di loro ricercano la pace in un paese dilaniato da una guerra civile in corso, come in Siria, soffocati dalla nube chimica e dai bombardamenti per la pace. Molti altri scappano dall’oppressione di regimi oscuri e teocratici come accade in Arabia Saudita. Altri ancora sono sballottati dai cambiamenti climatici e sono costretti a scappare da una casa affondata a causa dell’innalzamento del livello del mare, come accade in Venezuela. C’è chi in Senegal si sacrifica per regalare un futuro radioso ai propri figli e affonda con un barcone e altre migliaia di persone sconosciute per essere ricordato come uno tra i tanti morto ammazzato da ignoti. E mentre i politici dei paesi sviluppati farciscono i propri discorsi di luoghi comuni xenofobi e assecondano le folle gremite e facilmente condizionabili, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo devono fuggire al più presto per raggiungere “un posto migliore” dove nessuno gli dirà “you are welcome” ma si sentiranno ripetere “tornatevene a casa vostra”. Quei paesi sotto sviluppati e in guerra, punto d’origine delle migrazioni, sfruttati fino all’osso dai grandi della terra che ora non accettano le conseguenze delle loro azioni, meritano che i loro figli possano vivere non sotto il peso del mondo sulle spalle, ma con la testa alta di chi merita di essere parte integrante di un’umanità sotto lo stesso cielo.

 “A casa ci voglio tornare / ma casa mia sono le mandibole di uno squalo / casa mia è la canna di un fucile / e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa /a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda” scrive la poetessa kenyota Warsan Shire, classe ’88. Parole spasmodiche e ardenti che rappresentano in qualche modo tutte le migrazioni nella forma di violenza e recisione obbligata delle proprie radici. Squali che divorano la propria identità di cittadino in un paese in cui il tuo compagno di classe delle elementari ti punta una pistola alla testa. Neri e mulatti che hanno rovinato il loro paese e ora vengono qui a distruggere il nostro. Chiudiamo le frontiere, costruiamo il muro di Tijuana, nazionalismo e libertà, ma intanto preferiamo mangiare il sushi alla pizza etichettando qualsiasi popolazione orientale come “cinese” o qualunque venditore ambulante di gioielli come pakistano. Partiti che si nascondono dietro alla scusa del terrorismo per promuovere politiche di esclusione e intolleranza. Masse che venerano la demagogia e il qualunquismo e non comprendono la potenzialità economica delle migrazioni, ma si limitano a sbraitare “ci rubano il lavoro”. L’ignoranza e la xenofobia vanno a braccetto in centro. Queste forme di razzismo “moderato”, sgarbato e insolente, ma certo più tollerabile, distruggono l’inclusione e la convivenza pacifica e possono confinarci soltanto nel nostro stato mentale.

Il movimento è riconosciuto come un diritto inalienabile dell’uomo. Emigrare ed immigrare. Estroflettersi alla necessità di abbandonare il proprio paese. Partire e gettarsi fiducioso tra le braccia della promessa di una nuova vita. Fuggire da una guerra. Fuggire dalla povertà. Fuggire dalla subalternità a un regime persecutorio. Fuggire dai cicloni, dagli tsunami, dall’inaridimento: sono previsti 143 milioni di rifugiati climatici entro il 2050. Numeri che spaventano, ma che – a ben vedere – restano solo numeri, come le migliaia di vittime del Mediterraneo senza un nome e un viso, senza una voce. Solo un urlo spezzato e un corpo unico, inerme, salato e amaro come il mare che inghiotte di notte ed è crudele con chiunque non sia sufficientemente pronto ad una nuova guerra. L’ultima guerra prima dell’Europa. Barconi di cartapesta. Barchette di carta, la carta di un quaderno a quadretti. 400 milioni l’anno: l’ennesimo numero per avere un’idea del business totale del traffico di migranti verso l’Italia. Un giro d’affari che non si limita al “viaggio della speranza” e all’omicidio colposo, ma che comprende la tratta di esseri umani, la violenza sessuale e lo sfruttamento di minori: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Quattro parole bastano a descrivere la condizione di 30 mila morti nel Mediterraneo, pregno di sangue negli ultimi 15 anni.

Le proporzioni incommensurabili del fenomeno migratorio ci fanno ricorrere ai numeri e le certezze matematiche sembrano rassicurarci, rendere qualunque argomento impersonale e anodino. “Anodino”  deriva dal greco antico e letteralmente significa “senza dolore”. Siamo anestetizzati. I numeri rendono 30 mila cadaveri in mare un decina di migliaia compatta e anodina, incapace di proiettare nella nostra mente l’immagine orrifica della recisione definitiva delle radici dal proprio paese. La recisione della giugulare di un popolo. La demagogia e i numeri, lo statismo applicato ai bambini sulle mine antiuomo, il populismo becero che si prende gioco delle sofferenze altrui non può e non deve essere la soluzione. La soluzione è cercare perlomeno di empatizzare. “Aprire il dialogo” si direbbe in termini diplomatici. Sacrificare in minima parte la propria libertà di cittadino europeo, americano, russo. Non scandalizzarsi troppo se Aisha verrà a scuola con il velo, non per questo potrà imbarcarsi su un volo senza che gli venga richiesto di sollevare il Niqab. Accantonare i fondamentalismi. Imparare a concedere. Che la questione non sia più anodica, ma sia talmente esasperante, grama e atroce da poter essere definita patetica. “Patetico” deriva dal greco antico e letteralmente significa “sofferente”. “Páthei máthos”, “la sofferenza come conoscenza” intonava il coro dell’“Agamennone” di Eschilo, tragediografo greco del V secolo. Che possiamo imparare dalla sofferenza.


Articolo vincitore del contest mensile del quotidianoinclasse.it per il tema del Corriere della sera "Cos'è per voi l'Inghilterra?"

HOGWARTS, PINK FLOYD, NATIONAL GALLERY

L'Inghilterra, non poi così vicina ma non poi così tanto lontana, è da sempre uno dei miei sogni nel cassetto. Amo l'inglese, mi appassiona la storia di questo Paese, i costumi, la musica. Ho sempre desiderato di visitare l'Inghilterra, per conoscere la Patria dei "The Beatles", dei "Pink Floyd", del fish and chips o dell'afternoon tea. Ho sempre ammirato le culture diverse dalla mia, ma avvertire la Great Britain così vicina a me, così facilmente raggiungibile, così "a portata di mano", mi ha invogliata ancora di più ad esplorare, scoprire ed anche studiare le sue abitudini per sentirmi sempre più vicina agli inglesi ed alle loro usanze. Credo non ci sia niente di più bello di voler allargare i propri orizzonti viaggiando e cercando di apprendere gli aspetti più utili ed interessanti, più crazy e divertenti di tutte le Terre che si visitano. Chiunque non sia un babbano, ha una voglia matta di visitare Hogwarts, bere la burrobirra, giocare a quidditch e sconfiggere Voldemort. Tutto questo è possibile solo dove Harry Potter è nato: in Inghilterra. Tutti penso vogliano perdersi in Buckingham Palace, sprizzare adrenalina da tutti i pori sul London Eye oppure viaggiare attraverso la storia e la cultura all'interno del British Museum. Io, personalmente, avrei anche una voglia pazzesca di girare per i negozi sulla High Street, andare a bere un caffè da Hard Rock, fare acquisti da Primark o magari da Forever21. Be', per me l'Inghilterra è tutto questo. Onorare Albus Silente e la sua scuola, mettere piede nella Nazione che ha creato i Queen e gli Oasis, le Dr.Martens, il the delle 5:00 pm, il National Gallery ed il Big Ben. Tutti noi italiani ci sentiamo un po' British, e almeno io, voglio accogliere ed abbracciare la cultura inglese davvero con tutto il cuore.

Carlotta Pugliese, classe II B

Articolo vincitore del contest mensile del quotidianoinclasse.it per il tema di QN "Le parole sono importanti: quali salvare?"

Le parole fanno un'eco immensa

"Le parole sono pallide ombre di nomi dimenticati. Come i nomi hanno potere, le parole hanno potere. Le parole possono accendere fuochi nelle menti degli uomini. Le parole possono far uscire lacrime dai cuori più duri." (Patrick Rothfuss). E' impensabile riuscire a trasmettere qualcosa senza ricorrere alle parole, esse fanno giri immensi, ti imprigionano, ti fanno cadere in un buco nero, sono dotate di una forza che da un lato riesce a soffocarti, a tagliarti l' anima, dall' altra invece, se usate in modo opportuno e consapevolmente, possono farti rinascere! Capita, il più delle volte e spontaneamente, di subordinarle ai fatti; quando invece quest' ultimi sono solo mezzi che vengono adoperati per accrescere un qualcosa che si riduce estremamente a fare scena. Le parole sono alberi robusti dai quali si ramificano una varietà di termini: un ramo dal quale pendono parole usate nelle varie lingue, oggigiorno infatti sono parecchie le parole che si utilizzano in inglese oscurando quelle italiane, un altro ramo al quale sono agganciate parole offensive, ne esiste uno però,che non si spezzerà mai perchè esso viene potato sempre con parole gentili, sincere, oneste e proprio queste sono capaci di cambiare il mondo! La facoltà delle parole, in particolar modo quelle di cui facciamo uso nel nostro dialogo interiore, che accompagna il nostro creare o distruggere, viene smisuratamente sottovalutata. Il filosofo Gorgia, che basa la sua teoria sulla scissione tra cose e linguaggio, ritiene che quest' ultimo sia un gioco che affascina e conquista, è una forza ammaliatrice che permette di dominare e di influenzare i sentimenti degli uomini. E di fatto è proprio così, le parole persuadono l' uditore. Usale al tempo e al modo giusto, con criterio e coscientemente e in breve tempo ti accorgerai che ti distinguerai dalla massa nella quale sei immerso, ma soprattutto arriverai a raggiungere degli obiettivi e dei sogni che ti sei negato o eventualmente che hai rincorso faticosamente, ma che non sei riuscito ad acchiappare,perciò fermati e sfrutta al meglio quello che ti è stato dato. Le parole ti renderanno libero e se non le userai sarai uno schiavo per tutta la vita!

Maria Grazia Bonofiglio, classe III A


Testo vincitore del concorso "Io e la grammatica" bandito da Repubblica scuola e Accademia della Crusca

L'arte della scrittura

Grammatica, dal greco “grammatiké”: l’arte della scrittura. Ho sempre inteso la grammatica come gli antichi Greci, come l’arte della scrittura, un’arte, una “téchne”, a metà tra un’inclinazione poetica e un risvolto puramente pratico. Detestata a morte da generazioni studenti come la matematica, come fosse una scienza sempre esatta e noiosamente schematica, in realtà per me è stata sempre altro. Le sue regole, diverse per ogni lingua che io abbia mai studiato erano in stretta relazione con il popolo che le aveva, nel corso dei secoli, concepite. Ho sempre creduto che la grammatica fosse adatta a me: a metà tra la precisione delle materie scientifiche e la libera interpretazione delle discipline umanistiche. La lingua di ogni popolazione, la sua fonetica, la sua sintassi o la sua morfologia sono come uno specchio in cui si riflettono le caratteristiche proprie di quella parte del mondo e di un dato periodo storico. La grammatica italiana mi è sempre piaciuta particolarmente: la sua doppia negazione, la pronuncia marcata della“erre”, le sue vocali, il congiuntivo passato, le parole che rimandano alla sua storia di secoli di dominazioni straniere. La bellezza e la musicalità della lingua italiana mi hanno portata, nel corso dei miei anni di studio, ad apprezzare la grammatica e a pensare che se tutti amassimo la nostra lingua un po’ di più, rispettandone le regole, “vorremmo più bene” alla parte del mondo in cui viviamo. Di ogni lingua che ho avuto il piacere di conoscere mi sono sempre meravigliata delle differenze, dei suoni, del modo in si ritiene più giusto disporre le parole in una frase e ho sempre trovato infinitamente interessante notare in quanti modi diversi si possa esprimere un concetto in lingue diverse. Sarà per questo motivo che ho scelto di frequentare il liceo Classico, per non soffermarmi soltanto sulle lingue di comune apprendimento, ma anche a quelle ormai “impolverate”, ma attuali, che hanno dato forma a culture floride come quella greca e quella romana. Questo interesse per una disciplina tanto disprezzata come la grammatica non può che rendermi suscettibile alla valanga di errori che incontro ogni giorno sui social network, per esempio. Sempre per lo stesso motivo, poi, finisco per correggere gli errori dei miei amici e non è raro che mi prendano in giro per questo motivo, soprannominandomi “grammar-nazi”. La grammatica è importante e, sebbene possa sembrare noiosa con i suoi verbi da coniugare, le eccezioni e la punteggiatura, sarebbe bello considerarla parte fondamentale della nostra cultura e della nostra storia, non disprezzandola, ma facendo tesoro di tutte le sue sfaccettature.
Benedetta Persico, III A


Racconto vincitore del Concorso Nazionale "Giallo in classe" promosso dall'associazione Il Picchio di S. Giuliano Milanese

ANNA

 

Un urlo raggela il sangue nelle mie vene. “Anna”  grido in lacrime “Anna Anna” ripeto incessantemente “Anna Anna” il dolore diventa insopportabile “Anna” la chiamo stremata per l’ultima volta. Era una  notte come le altre, io e lei sul mio letto a guardare film horror. Ridevamo di ogni scena, poiché ci sembrava ridicola. Immaginavamo di essere al posto del protagonista e di dover trovare una  via di uscita prima di perdere la vita. Era così semplice salvarsi, almeno così credevamo. Tre di notte. La finestra sbatte più volte. “Avrò dimenticato di chiuderla” penso raggiungendola. La maniglia d’acciaio non è fredda come dovrebbe, è come se qualcuno l’avesse toccata. Ma non le do molta importanza e torno a letto. Chiudo gli occhi. La finestra si riapre sbattendo contro il muro. La cosa inizia ad infastidirmi. Domani dirò a mio padre di aggiustarla. Apro gli occhi e subito me ne pento. Inizio a tremare, la mia immaginazione vorrebbe avere il merito di quel che sto vedendo ora. C’è una sagoma nera dietro la finestra. Sembra un uomo. “Anna” sibilo terrorizzata . Fisso l’uomo e vado nel letto di mia sorella. “Anna Anna” la scuoto piangendo. Ho paura. Lei si sveglia e insonnolita controlla l’orario. “Ros sono le tre, fammi dormire” guardo lui un’altra volta “C’è qualcuno” le sussurro tremando  “Ah-ah, molto divertente” dice Anna “Mi hai svegliato per questo? Domani ho la verifica di scienze, torna a dormire su” si rotola nelle coperte nascondendo la testa sotto al piumone “Sono seria, guarda” le dico rivolgendo lo sguardo verso la finestra. Sento i suoi muscoli irrigidirsi e il respiro diventare irregolare. Quell’uomo non è frutto della mia mente. “Che-che facciamo” balbetta anch’essa in preda al panico. Cerco di restare lucida ma la tensione è troppo alta. “Chi sei?” urlo; se fosse stata un’altra occasione avrei sicuramente riso di me stessa ma questo non è il momento. Ora che i miei occhi si sono abituati al buio riesco a vedere i suoi bianchi bulbi oculari risplendere nel buio. “Chi sei?!” ripeto acquisendo coraggio ma accade qualcosa di terrificante. I suoi occhi spariscono nel buio così come sono apparsi. “Ros! Ros!” mi chiama mia sorella allarmata “Dov’è? Ros dove diamine è finito?” ora sta urlando, si alza sul letto in prenda al panico “Ros ho paura! ROS!” piange terrorizzata. Vorrei tranquillizzarla, dirle che andrà tutto bene, che non le accadrà niente e che ci siamo immaginate tutto. Ma non riesco. Non sono in grado di dire quel che è successo o di immaginare quel che accadrà. Raccolgo tutta la forza che riesco a trovare in  me e rido. Rido come una matta e lei mi guarda male. Il suo sguardo chiede spiegazioni. Anche io vorrei tanto averne ma non ne ho quindi mi tocca inventare. Le dico che è stato tuto uno scherzo organizzato da me per farla spaventare. “Sei un idiota.” dice lanciandomi il cuscino “Mi hai terrorizzata!” il suo tono di voce è calmo, è serena. Il terrore è fuggito via  dai suoi occhi. “Buonanotte” le dico baciandole la fronte e tornando nel mio letto. Mi convinco anche io del fatto che sia stata solo la mia immaginazione e mi addormento cercando di dimenticare tutto. La finestra si apre. “Ros!Ros!”è una voce a svegliarmi “Ros!Ros!” mi giro verso mia sorella e lo rivedo. Stavolta non dietro la finestra ma accanto al letto di mia sorella. Ora oltre agli occhi fiammanti nella notte vedo anche l’orribile ghigno trionfante che ha dipinto sul volto. Le lacrime forgiano il mio viso facendomi quasi soffocare. I bianchi assassini abbandonano il sorriso “Ros!Ros!” ripete emulando la voce della mia sorellina “Ros! Complimenti grande scherzo!” la sua risata esplode nella stanza mentre lui abbandona la stanza uscendo dalla finestra lasciandomi pietrificata. Corro subito da mia sorella ma quando raggiungo il suo letto non c’è corpo a riscaldare le lenzuola . Un lamento si protrae dall’interno del mio animo. Dolore puro. Scendo nella camera dei miei genitori e cercando le parole, tra le lacrime gli racconto tutto. I giorni seguenti la polizia mi fa sentire miliardi di voci per trovarne una che possa corrispondere a quella sentita quella notte, per aiutarli con  la ricerca ma nessuna voce gli è simile. Le notti non servono più per dormire. Mi è impossibile chiudere occhio, le sue urla rimbombano nella mia testa. “Anna, Anna” la chiamo, ma nessuno risponde. Sono 364 giorni dalla tua scomparsa. Ti prego Anna, torna e portami via con te.

Ines Ferrazzo, I B


Racconto classificatosi al 2° posto nel Premio Letterario Nazionale "Verso...Paestum"

Una famiglia d’amore

Sento voci fuori che dicono che fra un mese dovrei essere al mondo, ma non so se voglio che succeda, perché quelle stesse voci raccontano cose un po’ strane, o forse speciali. Non so bene di cosa parlino, so soltanto che mi stanno confondendo, perché prima parlavano di una cosa e adesso ne raccontano un’altra. Sento come descrivono il mondo in cui mi accingo ad entrare, e devo ammettere che gli occhi che lo vedono e la bocca che lo descrive devono appartenere a qualcuno che non ha molta voglia di vivere. Sembra tutto grigio, tutto buio, tutto pauroso e mostruosamente complicato. E poi, sembra che questa persona ce l’abbia con me, parla di me come se fossi un errore, una sorpresa non gradita.

All’inizio, diceva di volermi buttare via, poi sembrava che avesse cambiato idea: diceva che mi avrebbe affidato ad una buona famiglia, che avrei avuto una mamma e un papà che mi avrebbero dato tutto l’amore e tutto il necessario per vivere una vita felice, cosa che lei non avrebbe potuto fare. Mi parlava di questa mamma e mi raccontava di come fosse felice nell’attendermi e di come stesse accuratamente scegliendo il mio nome, facendo attenzione al significato. E poi mi descriveva il papà, un uomo docile e stanco della vita di coppia, che si sentiva in colpa per non aver potuto dare un figlio alla donna che amava e che pensava che io sarei stato la soluzione a tutti i loro problemi. Mi diceva che loro sarebbero andati fino in capo al mondo pur di vedermi felice, cosa che lei non poteva proprio fare. Mi diceva che la mamma mi avrebbe aiutato nei compiti a casa e che il papà mi avrebbe accompagnato allo stadio ogni volta che avessi voluto. Poi mi parlava del futuro, e mi diceva che aveva paura di abbandonarmi, il fatto che non mi avrebbe più rivisto la spaventava a morte.

Ma, ad un tratto, non sentii più nominare la mamma e il papà. Non so, era strano, da un momento all’altro ci fu il vuoto. Allora pensai che avesse cambiato idea e che avesse deciso nuovamente di buttarmi via, ma mi sbagliavo. Forse questa persona, che mi portava dentro di sé da ormai otto mesi, mi amava inconsapevolmente talmente tanto che pensava che quelle persone non erano adatte a me. Non ho capito che cosa l’abbia spinta a dedurre ciò, ma sta di fatto che alla fine ha scelto per me un’altra famiglia. Me ne parla tutti i giorni. Me la descrive come una famiglia speciale, qualcosa di nuovo e di diverso dal consueto. All’inizio mi faceva paura, perché non riuscivo a capire di cosa stesse parlando, ma andando avanti e ascoltando la sua voce finalmente tranquilla e serena, mi sono accorto di quanto sia effettivamente speciale la mia futura famiglia. E così mi parlava di questi due papà che non vedevano l’ora di accogliermi nella loro vita. Mi diceva di quanto coraggio ci sarebbe voluto per avermi, di come fossero dovuti andare contro tutto e tutti pur di prendermi con loro. Mi diceva che comunque ci sarebbe stato il papà che mi avrebbe aiutato con i compiti e quello che mi avrebbe portato allo stadio. Mi diceva di quanto fossero felici nel guardare la mia fotografia un po’ rigata e in bianco e nero, e di come l’avessero accuratamente incorniciata e messa su una mensola della mia futura cameretta. E soprattutto, mi descriveva gli occhi con cui si guardarono nel momento in cui avevano avuto la splendida notizia che io sarei arrivato e sarei stato tutto per loro. Mi parlava anche dei giudizi con cui erano stati assaliti, delle mille critiche che avevano ricevuto e delle ingiurie orribili di cui erano stati accusati, come se per il mondo amarsi in modo diverso fosse un peccato. Nonostante tutto, ancora adesso, che manca pochissimo al mio arrivo, me ne parla e l’altro giorno ho avuto la sensazione di sentirli vicino a me. Li sentivo parlare, ma non riuscivo a scandire bene le parole, perché venivano interrotte da singhiozzi e lacrime di gioia. Mi accorsi che si trattava delle voci dei miei papà perché mi accarezzavano e mi cantavano una ninna nanna, così, dalla gioia e dall’euforia, mi misi a scalciare, ed è veramente difficile descrivere l’emozione che udii nelle loro voci, ché sembrava fossero finalmente ripagate da una vita che li ha sempre giudicati e denigrati, solo perché si amavano di un amore diverso. Beh, questa è la mia famiglia, una famiglia un po’ strana, è vero, ma è pur sempre una famiglia. L’amore di cui mi circonderanno i miei papà è immenso e profondo tanto quanto l’amore che avrebbero potuto darmi una mamma e un papà. Perché la famiglia non ha un formato preciso: la famiglia è semplicemente caratterizzata dall’amore, dalla premura, dalla condivisione di qualcosa a cui si tiene tanto, la rinuncia a qualcosa di estremamente importante per il bene dell’altro.

È questa la famiglia, indistintamente dal fatto che ci siano una mamma e un papà, due mamme oppure, come nella mia, due papà.

Non vedo l’ora di conoscerli e di entrare a far parte delle loro vite, perché da quanto le mie piccole orecchie possano aver sentito da quaggiù, loro non vedono l’ora di abbracciarmi e di portarmi in un mondo tutto nostro, dove l’amore è amore e dove l’unicità della nostra famiglia non è “diversa” ma  “speciale”.

Eleonora Parise, I B 

L'angolo della poesia

Pomeriggio tra amici

 

Entra, amico

nel mio mondo freddo

dove non c'è posto per i piedi appoggiati al pavimento,

né di corse per chi arriva prima a scuola.

Scalderai il mio mondo, amico,

se mi dirai qualcosa di te

e di come è bello correre 

 

Elisabetta Cortese, classe I B

(Premio Letterario "Uguali nella diversità" - Venosa PZ 2016)

##################################### 

 

OMAR DEL MARE

 

Sono arrivato a Lampedusa,

se è questo che vuoi sapere

ma, te lo giuro, non è una scusa,

se dell'isola non voglio parlare. 

 

Un giorno, se vuoi, 

possiamo andare al mare

e ti dirò dell'acqua fredda 

e della barca ondeggiante

che andava piano... 

e la mia terra, 

la guardavo da lontano.

 

Elisabetta Cortese, classe I B

(Premio Masio Lauretti - aprile 2016)

#####################################

 

TERRA

 

Sei terra di sabbie,

di sole cocente,

di campi gialli,

di pini sempreverdi.

 

Sei terra.

 

Sei terra di cemento,

di cantieri,

di acque contaminate.

 

Non so ancora se ti lascerò

un giorno,

ma tanto tornerò.

 

Sei la mia terra.

 

Elisabetta Cortese, classe I B

(Terzo classificato al Premio Letterario MittAffett allo scrittore - Ceglie Messapico 2016 - Presidente di Giuria Paolo Giordano)

 

    



Racconto vincitore del 2° posto al Premio Albatros 2016, sezione narrativa giovani.

 

Il sole dopo la tempesta

 

Non era una vita facile e felice, la mia. Ero in quell'orfanotrofio da troppo, troppo tempo. La governante era severa e acida; ci faceva pulire, lavare, stirare. I compiti più pesanti ovviamente toccavano a me. Io, in quel piccolo orfanotrofio, ero la più grande. «Liesel, Liesel!» mi chiamava con tono severo la governante «che fine ha fatto il mio maglione di cotone? Ti avevo detto di lavarlo con i colorati!»

Ero davvero stufa di dover fare sempre tutto io. Per quanto sarei dovuta rimanere lì dentro? Avevo 14 anni, chi mai mi avrebbe voluto adottare? Tutti adottavano le bambine piccole. Loro erano dolci, carine, facevano tenerezza. Bastava che facessero uno sguardo commovente a chi entrava nell'orfanotrofio e il gioco era fatto. Avevo bisogno anch'io di una figura materna o di una figura paterna. Non mi importava molto, mi interessava solo che qualcuno mi volesse bene. I miei genitori erano morti in un incidente stradale, persi per sempre. Non sapevo se ritenermi fortunata di non essere stata in macchina con loro o sfortunata, perché a quest'ora sarei salita al cielo e non mi sarei trovata in questo stupido orfanotrofio. Starò chiusa per sempre in quest'inferno domestico? Probabilmente sì. Probabilmente, quando la governante morirà, toccherà a me guidare quarto posto. I giorni passarono, molti bambini trovarono una famiglia e molti la persero. Era ormai dicembre, e Natale era sempre più vicino. Che tristezza dover passare l'ennesimo Natale a lucidare le scarpe della governante. Si chiamava Kendall. Che nome orrendo, un nome da strega, da cornacchia. Un po' come lei, perché sì, somigliava ad una cornacchia. Non solo per la sua voce acuta, ma anche per la sua pettinatura: aveva i capelli neri, sempre raccolti in una crocchia disordinata. Era il 15 dicembre e, come al solito, nell'orfanotrofio entrò un uomo, che sicuramente avrebbe adottato un'altra di quelle bambine dallo sguardo dolce. Attraversò l'uscio della porta e camminò verso di me. Che strano, forse il bel giorno era arrivato? Non volli illudermi, così trattenni lo stupore e mi limitai ad ascoltare le parole che si stavano scambiando quell'uomo e la governante. «Il suo nome è Liesel, è una ragazza testarda. Si sa come sono le ragazze di oggi; non vogliono fare nulla, cercano sempre di negare l'evidente e...» non fece in tempo a continuare che l'uomo esclamò «Vorrei adottare lei». Stavo saltando dalla gioia e, come se fosse appena arrivata la primavera, nella mia mente vidi fiori sbocciare ovunque. Nonostante fosse inverno sentivo un piacevole tepore attraversare il mio corpo. I pensieri si ingarbugliavano fra di loro; finalmente una casa, finalmente un luogo dove potevo stare in pace con me stessa.

Durante il tragitto l'uomo si presentò. «Scusa se non mi sono presentato prima, il mio nome è Markus». Arrivati a casa, ad aprire la porta non fu una donna, bensì un uomo. «Probabilmente non è il tipo di famiglia che ti aspettavi» iniziò a dire «ma è pur sempre una famiglia, ed è sicuramente un posto migliore di un orfanotrofio» concluse con una leggera risata. «Detto questo, il mio nome è Evan». Di cosa sarei dovuta rimanere scioccata? A me il sesso di un singolo genitore non importava, anzi, ritenevo anche gli omosessuali dovessero avere i loro diritti. Non mi importava nemmeno di essere presa in giro dai miei coetanei, perché il legame che unisce la vera famiglia non è il legame di sangue, bensì quello del rispetto della gioia e delle reciproche vite, e tutti dovrebbero allargare i propri orizzonti per riuscire a capire questo concetto. Con i miei nuovi genitori mi trovavo bene; mi iscrissero ad una scuola superiore, fecero i salti mortali per procurarmi tutto ciò di cui avevo bisogno e per rendermi felice. Nonostante quell'orfanotrofio fosse pieno di gente, mi sentivo più sola lì che nella mia nuova casa. Qui c'era gioia e affetto, era come se tutti i pezzi del mio cuore si fossero riuniti, era un po' come essere passati dal purgatorio ad una visione oleografica di un paradiso d'amore. Finalmente potevo dire anch'io di avere una famiglia.

Francesca Scalfaro, classe I A